Se c’è qualcosa di privato e disconnesso dallo schiamazzo che online ci assorda quotidianamente, è il rito di ritrovarsi attorno a una persona che non c’è è più e condividerne la memoria, magari in silenzio. Eppure internet entra in campo anche qui, dispiega i suoi mezzi di comunicazione, le sue varie possibilità per celebrare la memoria dell’estinto, una memoria che – lo sappiamo bene – da qualche anno non appartiene più solo a parenti e amici, ma essendo digitale, è un patrimonio comune e universalmente accessibile della grande rete. La morte, e i vari modi di trattarla attraverso le nuove tecnologie, sono oggetto d’indagine del saggio La morte si fa social – Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale di Davide Sisto, filosofo e assegnista di ricerca in Filosofia Teoretica presso l’Università di Torino.
Esaminando il tema dell’elaborazione del lutto, Sisto sostiene che significativi sforzi in questo senso sono stati fatti dai social network.
“Prendiamo Facebook, dà la possibilità di scegliere un ‘contatto erede’ che gestisca foto e informazioni di chi non c’è più. Oppure di pianificare la propria ‘cremazione digitale’ chiedendo a priori l’eliminazione dell’account in case di morte”.
A proposito di elaborazione, com’è cambiata la memoria con internet?
“Forse, l’aspetto più rilevante è che internet rende difficile, se non impossibile, dimenticare. Tutto ciò che viene registrato online lascia una traccia indelebile – visiva – che difficilmente sparisce in modo definitivo nel corso del tempo. Secondo Adam Ostrow, caporedattore di Mashable, su YouTube vengono caricate 48 ore di video al minuto, su Twitter postati 200 milioni di tweet al giorno e l’utente medio di Facebook produce circa 90 contenuti al mese. Mai come oggi l’umanità dispone di un patrimonio così sterminato di memorie individuali. Ciò comporta un’integrazione, spesso caotica e insalubre, tra il presente e il passato. Di fatto, chi muore si rivede. La pervasiva ‘adunanza di spettri’ nel web, per usare una fortunata espressione di Maurizio Ferraris, rende sempre più difficile andare avanti, lasciando qualcosa di definitivo alle spalle.
C’è un ritualizzazione della morte specifica del web? Una sorta di celebrazione per elaborare il lutto virtuale con sue specifiche connotazioni rispetto a un tradizionale funerale?
“In realtà, vi sono differenti forme di ritualizzazione della morte nel web. Vorrei soffermarmi su quelle meno conosciute. Mi ha molto colpito, per esempio, MyDeathSpace, un sito all’interno di cui si creano pagine specifiche dedicate ai morti, riportando la loro biografia, le informazioni relative alla causa del decesso e i collegamenti ipertestuali ai loro profili social. In ogni pagina vi è un forum in cui gli utenti possono commentare. In diversi Paesi vi è la possibilità di porre sulla tomba un QR Code abbinato al profilo social del defunto o, più diffusamente, al suo blog o a una pagina creata appositamente dai parenti in cui raccogliere pensieri, memorie e immagini. Sono sempre più diffusi i selfie ai funerali – in Gran Bretagna un terzo dei dolenti ha ammesso di farne uso – i quali poi vengono condivisi su Instagram con l’hashtag #funeral: non si tratta solo di una macabra manifestazione di superficialità, ma anche un modo per riportare la morte e il dolore nella vita di tutti i giorni. Vi sono quindi siti web e applicazioni per mobile device che cercano di rendere più corposa la celebrazione funeraria del morto tramite rappresentazioni fotografiche e video. Addirittura, l’Hereafter Institute ha progettato un medaglione multimediale da portare al collo, contenente le registrazioni del defunto. Se a tutto ciò aggiungiamo le ormai consolidate celebrazioni dei morti – famosi e non famosi – all’interno dei social network abbiamo un quadro particolarmente ricco e innovativo delle attuali forme digitali di ritualizzazione della morte”.
Morte digitale e morte reale, in che modo possono avvenire in momenti diversi?
“Da sempre moriamo fisicamente, sopravvivendo spiritualmente nei ricordi e nella memoria altrui. Oggi, sopravviviamo anche in modo “materiale” nel web, sotto forma di parole, immagini, video, fotografie che danno una forma visiva alla nostra memoria. Addirittura, vi sono numerosi tentativi di farci sopravvivere sotto forma di automatismi – i cosiddetti “griefbot” – che continuano a comunicare con i vivi. Si pensi al caso più noto, quello di Luka, il chatbot inventato da Eugenia Kuyda che permette di dialogare con lo spettro digitale di Roman Mazurenko, ragazzo morto qualche anno fa. O, ancora, pensiamo a progetti come Eter9, che cercano di creare delle nostre controparti virtuali il cui compito è sostituirci una volta che siamo offline o siamo morti. Come evidenzia bene il giurista Giovanni Ziccardi, la morte digitale ha difficilmente luogo. Qualche traccia rimane per sempre. Pertanto, siamo oramai destinati a una specie di immortalità digitale”.